La giustizia penale di Alessandro Manzoni,

la macchina del tempo che dopo secoli fotografa la società vendicativa

 

Garantismo è un sostantivo che illustra un concetto auto portante: la garanzia compendia al suo interno la necessità di rispettarla. Rovesciando l’argomento: dove non c’è rispetto della norma posta a tutela dell’individuo non può ragionarsi di garanzia. La quale cosa esclude che la dicotomia garanzia/giustizia abbia un qualche senso logico, oltre che giuridico: un processo in esito al quale un giudice giunga ad una decisone nel rispetto delle norme poste a tutela dell’imputato è, al tempo stesso, espressione di giustizia e sigillo di garanzia.

Viceversa i termini diventano collidenti nel momento in cui vengono utilizzati come corpi contundenti in un ragionamento pseudo-politico di scarsissima qualità; sicché, secondo la logica di codesti modesti epigoni di Catone, pretendere il rispetto delle regole del giudicare significa sfuggire al giudizio (qualche mente creativa ha partorito filastrocche pre- adolescenziali del tipo “difendersi dal processo e non nel processo”), salvo rammentarsi della centralità del concetto di garanzia quando si rende necessario adattarla alla propria causa.

Contro questa volgarizzazione, sempre più incombente, giova ritornare ai fondamentali e, al proposito, soccorre un piccolo, intenso, erudito pamphlet scritto da Gaetano Insolera: “La giustizia penale di Alessandro Manzoni”, Mucchi Editore. Centrale nella narrazione di Insolera è la Storia della colonna infame, cronaca manzoniana del processo milanese contro due presunti untori la quale, nella edizione Quarantana, fu posta in calce al romanzo dei Promessi Sposi. Insolera valorizza questa lettura simultanea, dalla quale cogliere l’idea di Manzoni della giustizia “che nelle mani degli uomini può assumere tutte le imperfezioni: passioni, ferocia, ignavia, falsità. Storture con la tentazione – questa si demoniaca – di usarle per ottenere, con il processo criminale, una verità che corrisponda a quella che si vuole ottenere perché tale deve essere.”.

L’attualità del pensiero manzoniano è dimostrata dalla fungibilità di taluni “istituti” che trapassano il tempo senza sostanzialmente mutare.

Così la figura del chiamante in correità, reso tale dalla tortura, che nel racconto manzoniano vede Piazza accusare Mora di concorso in unzione e che trova perfetta rispondenza nell’utilizzo della carcerazione preventiva (e nei fini sottesi) in recenti pagine della nostra storia giudiziaria; così, ancora, la tecnica inquisitoria che vuole condurre il dichiarante alla menzogna poiché “volevano che si confessasse bugiardo una sola volta, per acquistare il diritto di non credergli quando avrebbe detto: sono innocente”.

Questa immanenza della idea manzoniana di giustizia e del suo articolarsi in forme ancora attuali suona come ammonizione. Ne scorse l’importanza Sciascia nel suo scritto “i burocrati del Male”, introduzione ad una edizione della Storia della colonna infame. A fronte del tentativo, anch’esso attuale, di dare una lettura storicistica alle vicende di giustizia, secondo la quale ciò che è stato (nel passato come nel presente) così doveva essere, Sciascia oppone un grido di allarme evocando “una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora”.

La tortura, la medesima tortura che i personaggi manzoniani subivano “per purgare l’infamia”, c’è ancora ed è rinvenibile in moderne forme di cautela dell’indagato, in taluni istituti “d’emergenza” contrari al senso di umanità ma vissuti come strumenti indispensabili in una società drogata di parole d’ordine volgari, nell’ordinamento penitenziario, nelle scarse risorse investite nell’esecuzione penale e nella scelta di dimenticare il recluso nella sua cella, salvo dolersi se costui nuovamente delinque una volta libero.

Questa sorta di macchina del tempo che mette in contatto la Milano del 1600 e i giorni nostri pone a nudo una continuità che dovrebbe far vergognare i diffusori del retrivo pensiero neo oscurantista. La sola idea che certe corticali anomalie si ripetano nei secoli dovrebbe far inorridire chiunque, ma non, evidentemente, i decerebrati cantori della bellezza del suono delle manette.

Non esiste antidoto al veleno che si insinua in una società vendicativa, sobillata per ritorno elettorale, se non la scelta di praticare la cultura della conoscenza in opposizione alla negromanzia inquisitoria praticata da legioni di buffoni a pagamento: in questa materia, infatti, non troverete mai idee gratuite. Sono tutte declinate da neo questurini a favore di un sottobosco perverso di nulla essenti, che si nutrono dei mattinali di questura. A 2 euro, in edicola.